28 Feb 2019

Vertice Kim-Trump: “Nessun accordo è meglio di un pessimo accordo”

Usa e Corea del Nord

“Nessun accordo è meglio di un pessimo accordo”. Con queste parole il presidente statunitense Donald Trump ha spiegato al mondo perché sarebbe stato “inappropriato” sottoscrivere una dichiarazione congiunta al termine del suo secondo incontro con il leader nordcoreano Kim Jong Un, questa volta nella capitale vietnamita di Hanoi.

Nelle migliori delle attese, questo vertice avrebbe dovuto dare vita ai primi passi di un processo incrementale verso almeno uno di questi obiettivi di lungo periodo: il disarmo nucleare, la normalizzazione dei rapporti bilaterali e la fine dello stato di guerra sulla penisola coreana. Ciò non è accaduto e i colloqui sono collassati di fronte all’impossibilità di trovare un compromesso sulla questione della rimozione delle sanzioni. Kim Jong Un si sarebbe reso disponibile a smantellare alcuni siti in cambio della revoca di tutte le misure che soprattutto a seguito della stretta operata a partire dal 2016 non hanno lasciato indenne alcun settore dell’economia nordcoreana. 

Non era un esito difficile da prevedere se ci si attiene alle parole dei protagonisti. Non solo Kim Jong Un aveva espresso al presidente sudcoreano Moon Jae-in l’intenzione di smantellare il sito di Yongbyon solo in cambio di “misure corrispondenti” da parte degli Stati Uniti, ma lo scorso gennaio Washington era stata poi messa in guardia dal regime attraverso gli organi di stampa ufficiali dalle “inevitabili conseguenze” che una strategia basata ancora sulle sanzioni e sulle pressioni avrebbe prodotto.

Sul fronte statunitense, domenica scorsa il Segretario di Stato Mike Pompeo aveva confermato l’impossibilità di revocare il fulcro del regime sanzionatorio fino a quando la minaccia nordcoreana non sarà diminuita con certezza. Oggi la posizione che gli Stati Uniti hanno mantenuto durante i colloqui è stata ulteriormente chiarita. Nonostante il Segretario di Stato avesse lasciato intravedere i segni di un approccio forse più flessibile nel breve periodo, la delegazione statunitense, di cui ha fatto parte anche il “falco” John Bolton, ha giudicato insufficiente l’offerta nordcoreana dello smantellamento di “alcune aree”, principalmente quella di Yongbyon, in assenza di un impegno a includere nell’accordo non solo ulteriori strutture, ma anche la componente missilistica e le testate nucleari dell’arsenale nordcoreano.

In questo modo, Trump ha mantenuto intatta la principale leva negoziale di cui dispone, anche se è necessario ricordare alcuni dei limiti alla volontà presidenziale, in riferimento proprio ai provvedimenti unilaterali imposti dagli Stati Uniti alla Corea del Nord. La revoca del divieto per i cittadini statunitensi di recarsi in Corea del Nord e soprattutto alle compagnie di investire in Corea del Nord a causa delle violazioni dei diritti umani compiute dal regime, firmata dal presidente con Atto esecutivo nel 2017, necessita del voto favorevole del Congresso, attualmente controllato dai Democratici.

L’impossibilità statunitense di fare concessioni in termini di alleggerimento delle sanzioni complica notevolmente gli sforzi del presidente sudcoreano Moon Jae-in che ha investito tutto nella “risocializzazione” della Corea del Nord all’interno della comunità internazionale. Il rilancio del dialogo tra le due Coree negli ultimi dodici mesi ha viaggiato a velocità spedita, ma ora poco di più può essere fatto in assenza di progressi sul fronte della sicurezza sulla penisola coreana. 

Seoul aveva riposto molte aspettative nella buona riuscita di questo nuovo incontro tra Trump e Kim per far ripartire i programmi di cooperazione economica tra le due Coree (per es. il complesso industriale di Kaesong e il sito turistico del monte Kumgang, entrambi in Corea del Nord) attualmente impossibili da riattivare in quanto qualsiasi investimento sudcoreano al Nord, ad eccezione degli aiuti umanitari, costituirebbe una violazione delle sanzioni del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. La preclusione di questa strada impedisce al presidente sudcoreano, in fortissima difficoltà sul piano dell’economia nazionale, di tradurre nei fatti il suo progetto di integrazione economica regionale, collegando per via ferroviaria la Corea del Sud all’Estremo oriente russo, passando per la Corea del Nord, che costituirebbe un volano per sollevare l’economia nordcoreana, da cui anche i vicini regionali trarrebbero notevoli vantaggi. 

Se si parla degli attori regionali, Pechino resta una osservata speciale nella “questione nordcoreana”. Nell’ultimo periodo la leadership cinese è parsa più defilata rispetto al primo anno della presidenza Trump quando aveva deciso di attuare in maniera meno lasca le sanzioni Onu per poi allentare nuovamente la presa sull’economia del regime. Nonostante le apparenze, come ha riconosciuto Trump in conferenza stampa, questo attore non può non giocare un ruolo significativo dato che oltre il 90% del commercio estero di Pyongyang dipende dalla Cina. Per quanto ciò non equivalga a una dipendenza politica – lontana è l’epoca in cui Pechino e Pyongyang erano definite da Mao “vicine come i denti alle labbra” –  Kim Jong Un è riuscito a ricomporre un rapporto con il presidente cinese Xi Jinping, profondamente danneggiato dalle provocazioni militari che sono servite al leader nordcoreano per consolidare il suo controllo sul regime dopo l’improvviso avvicendamento ai vertici a seguito della morte del padre nel dicembre 2011.

Questo nuovo avvicinamento ha visto la Corea del Nord mantenere costante comunicazione con Pechino – nel 2018 il summit di Singapore era stato preceduto e seguito dalle visite di Kim al presidente cinese e proprio in queste ore emissari nordcoreani stanno riferendo a Pechino l’esito dei colloqui di Hanoi – che sostiene ufficialmente la via negoziale nel senso di un processo incrementale “step-by-step” in quanto compatibile col mantenimento della stabilità regionale; da sempre interesse strategico per i cinesi. Il ruolo di mediatore che Xi ha giocato nell’allontanare i “venti di guerra” che erano soffiati sulla penisola coreana nel corso del 2017 resta una moneta di scambio cruciale di cui Pechino può continuare a servirsi nell’ambito dei negoziati commerciali con Washington.

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