17 Feb 2022

Via dal Mali

Sahel

Parigi e i suoi partner annunciano il ritiro dal Mali e la fine delle operazioni Barkhane e Takuba. E mentre gli occhi del mondo sono puntati sull’Ucraina, la Russia avanza nel Sahel.

 

La Francia, i suoi partner europei che operano in Mali e il Canada si ritirano dal paese, dove sono presenti con l’operazione Barkhane e le forze speciali Takuba. L’annuncio era nell’aria dopo che il colpo di stato militare a Bamako era coinciso con il brusco deteriorarsi nei rapporti con Parigi, un tempo vista come forza di liberazione e oggi accusata di neocolonialismo. Ma la decisione segna soprattutto un’erosione dell’influenza francese in una delle regioni strategicamente più importanti per Parigi nel continente africano da oltre un secolo. “Le condizioni politiche, operative e legali non sono più soddisfatte”, si legge in una dichiarazione congiunta diffusa dall’Eliseo al termine di un vertice dei paesi del G5 Sahel (Mauritania, Mali, Niger, Ciad e Burkina Faso), che partecipano alla forza multinazionale dell’operazione Barkhane. Nel documento, Parigi, gli alleati europei – tra cui l’Italia – e il Canada annunciano “il ritiro coordinato” dal paese africano, pur assicurando la loro “disponibilità a rimanere impegnati nella regione”, dove resta alta la minaccia jihadista. Attualmente la Francia ha circa 4.300 soldati dispiegati nel Sahel, di cui 2.400 nel solo Mali. Uomini e mezzi ripiegheranno nei paesi vicini. Come ha evidenziato l’ex-ministro della Difesa Hervé Morin, paragonando la situazione in Mali a quella dell’Afghanistan: “È un anno e mezzo che dico che non ci resta nessun’altra opzione se non il ritiro. Siamo in uno scenario che si avvicina ogni giorno di più a quello che abbiamo visto in Afghanistan. Siamo arrivati per combattere il terrorismo e ricostruire uno stato su un accordo politico e sembriamo sempre più una forza di occupazione”. 

 

Da salvatori a occupanti?

L’inizio dell’operazione militare più lunga che la Francia abbia condotto dai tempi della Guerra d’Algeria risale al 2013, quando l’avanzata verso Sévaré e Mopti di gruppi armati jihadisti stanziati nel nord del Mali aveva messo l’allora governo di Bamako nelle condizioni di invocare un intervento di terra dei contingenti dell’Opération Serval. Nell’agosto del 2014 Parigi decise di regionalizzare il dispositivo militare in Sahel per adattarsi alla minaccia transfrontaliera dei gruppi jihadisti: nasceva l’Opération Barkhane con il dispiegamento di 3.500 uomini in basi permanenti – a Gao, Niamey, N’Djamena – e temporanee, lungo un’area di oltre un milione e 200mila chilometri quadrati, perlopiù desertici, compresa tra la Mauritania e il Ciad. L’obiettivo era controllare snodi strategici e confini regionali, limitando la mobilità dei guerriglieri jihadisti e privandoli del supporto logistico e di approvvigionamento. Al dispiegamento di Barkhane era seguita un’iniziativa multilaterale da parte degli stati della regione, che nel febbraio dello stesso anno avevano dato vita a un network – il G5 Sahel – per il coordinamento delle politiche di sicurezza e sviluppo. La creazione di una Joint Force (JF-G5S), formalmente istituita nel 2017 su forte pressione della Francia, ha risposto poi all’urgenza di approfondire il processo di integrazione militare. Negli anni successivi la Francia è riuscita a coinvolgere altri stati europei e il Canada nella task force Takuba. La forza congiunta prevede un comando regionale comune, ma difficoltà logistiche, disfunzionamenti e ristrettezze finanziarie ne hanno fortemente limitato le capacità operative. 

 

  

La Russia ringrazia?

Le accuse di inefficacia alla missione militare Barkhane di ingerenza neocoloniale e persino di compiacenza delle forze francesi con i gruppi jihadisti hanno alimentato nel corso degli anni l’avversione delle popolazioni saheliane nei confronti della Francia. Il sentimento di insicurezza delle popolazioni locali di fronte ai ripetuti massacri degli insorti jihadisti, in Mali come in Burkina Faso e Ciad, hanno contribuito a delegittimare le autorità statali, favorendo la creazione di basi di consenso per gli attori militari golpisti. È qui che affonda le sue radici la destituzione di governi civili eletti in questi paesi negli ultimi mesi ad un ritmo preoccupante. Una dinamica che ha contribuito ad aggravare la dimensione politico-istituzionale di quella che tutti gli analisti definiscono una crisi multidimensionale. E in cui la Russia, con i contractors dell’agenzia Wagner Group, ha avuto buon gioco ad incunearsi. Secondo fonti militari francesi, sarebbero tra i 600 e gli 800 uomini; e a Timbouctu, Gao e Mopti sventolano le loro bandiere, in un territorio che un tempo era il cuore della Francafrique. E non è di certo un caso: se il passato coloniale di Parigi è un macigno non rimosso nel continente, Mosca può vantare un passato specchiato in questo senso e non ha obiezioni dal sollevare a chi – come il capo della giunta golpista in Mali, il colonnello Assimi Goïta – ha rinviato le elezioni al gennaio 2026. Come altri ‘nuovi attori’ nel continente (Turchia, Cina, Emirati Arabi Uniti),  Mosca ha reso ben chiaro che non ha nessuna intenzione di interferire nelle questioni politiche interne e vuole solo fare affari in un’area ricca di risorse minerarie.

 

Bamako come Kabul?

Dopo nove anni, 53 soldati uccisi e un’operazione costata circa 8 miliardi di euro, il presidente francese Emmanuel Macron rifiuta “completamente” l’idea di un fallimento. Eppure, quando François Hollande nel 2013 annunciò l’invio delle truppe, fu detto che si trattava “di evitare che i gruppi jihadisti venuti dal nord trasformassero il Mali in un santuario del terrorismo”. Oggi si tratta di proteggere i paesi del Golfo di Guinea (Costa d’Avorio, Ghana, Togo, Benin) e le loro capitali, oltre mille chilometri più a sud. Un ministro ammette al quotidiano l’Opinion: “Il Mali avrà più impatto sull’opinione pubblica rispetto all’Ucraina […] Risuona di più perché sono i nostri uomini, il nostro esercito”. Il timore è che qualcuno possa paragonare il ritiro da Bamako a quello degli americani da Kabul la scorsa estate. Ma c’è anche chi pensa che la prima colpa dei francesi sia stata di non aver lavorato sul piano politico e istituzionale, almeno quanto hanno fatto su quello militare. L’assenza di uno stato maliano avrebbe dunque compromesso l’esito dell’intera operazione. “Ogni volta che abbiamo ottenuto una vittoria tattica, lo stato maliano non ha colto l’occasione per consegnare servizi, giudici, prefetti, forze di sicurezza nelle zone del nord – osserva un ex ufficiale dell’esercito francese in pensione – Ma la natura detesta il vuoto. Quando arrivano i terroristi con la loro sharia, per le popolazioni locali a volte è meglio di niente”.

 

 

Il commento

Di Giovanni Carbone, Head programma Africa, ISPI

“Perfino per Parigi, storicamente attenta a tenere un piede in Africa, il messaggio è chiaro: ci sono delle linee rosse che non vanno oltrepassate. In Mali ne sono state superate ben due. Una con l’avvento di un governo golpista restio a tornare ad elezioni, la seconda con il fare spazio all’‘opzione russa’. Per massimizzare la pressione (e anche per rispondere a esigenze interne francesi), Macron esce e sbatte la porta. Ma almeno per ora si ferma subito lì fuori, continuando a cooperare con i paesi limitrofi nell’affrontare la crisi del Sahel. Ancora una volta, forse, i francesi scelgono di partir pour mieux rester”.

 

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A cura della redazione di  ISPI Online Publications (Responsabile Daily Focus: Alessia De Luca,  ISPI Advisor for Online Publications) 

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