12 Feb 2024

Rafah nel mirino

Dopo una notte di bombardamenti massicci, Israele libera due ostaggi e minaccia di mandare i tank a Rafah, ultimo riparo per oltre un milione di palestinesi nella Striscia di Gaza.

A Rafah, nell’estremo sud della Striscia di Gaza al confine con l’Egitto, la paura si è trasformata in panico: la gente è terrorizzata dalla prospettiva di un’operazione di terra, dopo che la notte scorsa l’aviazione israeliana ha sferrato uno tra i peggiori attacchi aerei dall’inizio del conflitto. Il massiccio bombardamento è servito per coprire un’operazione che – come riferisce l’esercito israeliano – avrebbe riportato alla liberazione di due ostaggi. Intanto, il premier Benjamin Netanyahu ha ordinato l’evacuazione della città palestinese, dichiarata finora “zona sicura” da Tel Aviv anche se bombardata regolarmente, in cui è rifugiata la metà dei 2,3 milioni di abitanti di Gaza, sfuggiti ai bombardamenti in tutte le zone più settentrionali della Striscia. “Israele aprirà un corridoio per permettere ai civili di lasciare la città”, ha aggiunto Netanyahu senza chiarire dove potrebbe andare un così alto numero di persone e alimentando il timore di una pulizia etnica ai danni dei civili palestinesi. “Non dite che non si può fare”, ha chiarito il portavoce del governo Eylon Levy, in conferenza stampa. “Piuttosto lavorate con noi per trovare il modo”. Intanto, però, questa mattina le autorità di Tel Aviv hanno rifiutato il visto di ingresso a Francesca Albanese, relatrice speciale per i diritti umani nei Territori palestinesi occupati. La decisione è stata presa dopo che in un post di risposta al presidente francese Emmanuel Macron, Albanese aveva scritto su X che le vittime del massacro “non sono state uccise a causa della loro fede ebraica”, ma in risposta all’oppressione israeliana. Tel Aviv avrebbe anche chiesto al Segretario Onu Antonio Guterres di rimuoverla dall’incarico. 

Le pressioni cadono nel vuoto?

A nulla sembrano servire le pressioni degli Stati Uniti, che hanno ammesso che un’offensiva nella città in cui hanno cercato rifugio circa 1,3 milioni di palestinesi, porterebbe a “un bagno di sangue”. Lo riferisce il Guardian secondo cui domenica, in una telefonata con Netanyahu, Joe Biden ha chiarito che Israele non dovrebbe lanciare un’operazione militare a Rafah “senza un piano credibile ed eseguibile per garantire la sicurezza e il sostegno a oltre un milione di persone che vi si rifugiano”. Questo tipo di operazione militare “sarebbe un disastro”, ha rincarato il consigliere per la Sicurezza nazionale di Biden, John Kirby “e non è qualcosa che noi sosterremmo”. Netanyahu, da parte sua, ha affermato che Israele porterà avanti la campagna di terra a Rafah, definendola “l’ultima roccaforte di Hamas” la cui conquista è “necessaria per vincere la guerra”, ma ha insistito sul fatto che i piani sono ancora “in fase di elaborazione”. Se prima della guerra Rafah ospitava 300mila persone, attualmente gli sfollati sarebbero circa un milione e 200mila e vivono in condizioni di grave sovraffollamento. Un’operazione di terra potrebbe inoltre tagliare una delle poche rotte disponibili per le forniture mediche e alimentari di cui hanno assoluto bisogno per sopravvivere.  

Camp David in bilico?

Le prossime mosse di Israele preoccupano il Cairo, che ha minacciato di sospendere il suo trattato di pace con Tel Aviv nel caso in cui le truppe israeliane invadessero Rafah. L’Egitto vuole convincere Tel Aviv all’autocontrollo, anche perché teme un afflusso massiccio di centinaia di migliaia di sfollati palestinesi verso il confine: se quest’ultimo venisse violato, l’esercito non sarebbe in grado di fermare una marea di persone in fuga verso la penisola del Sinai. E Il Cairo è consapevole che, una volta entrati, Israele potrebbe impedire loro di tornare a casa. Da parte sua Hamas ha dichiarato che un’offensiva contro Rafah “farebbe saltare” i colloqui per un cessate il fuoco mediati da Stati Uniti, Qatar ed Egitto e porrebbe fine a qualsiasi possibilità di trattativa per la restituzione dei circa 100 ostaggi ancora detenuti nella Striscia. Infine, lo scoppio dei combattimenti nell’area di confine con la Striscia pregiudicherebbe l’ingresso degli aiuti umanitari dall’unica via di accesso all’enclave palestinese assediata. L’eventualità preoccupa anche le organizzazioni umanitarie, che da giorni mettono in guardia la comunità internazionale sui piani di Israele. Anche Qatar, Arabia Saudita e altri paesi arabi hanno minacciato “gravi ripercussioni”  se Israele dovesse entrare a Rafah.

Biden minaccia ma non si smarca?

Anche l’Europa concorda: “Un’offensiva israeliana a Rafah porterebbe a un’indicibile catastrofe umanitaria e a gravi tensioni con l’Egitto”, ha scritto il capo della politica estera dell’Unione europea Josep Borrell su X. Ma sul conflitto a Gaza l’Unione è spaccata e non riesce a far sentire la sua voce né a porsi come attore geopolitico credibile. Al momento gli unici che possono frenare Netanyahu sono gli Stati Uniti. Ma è un fatto che finora le pressioni di Washington su Israele perché cerchi di risparmiare i civili palestinesi non hanno ottenuto risultati. E più passa il tempo, più le dichiarazioni della Casa Bianca, che minaccia ma non si smarca, provocano rabbia e indignazione nel mondo arabo e non solo. Fino a questo momento, infatti, Biden si è rifiutato di chiedere un cessate il fuoco nella Striscia di Gaza e il Congresso – pur tra le mille difficoltà dovute alla campagna elettorale già in corso tra Repubblicani e Democratici in vista delle elezioni di novembre – si appresta a varare un pacchetto di aiuti di 14 miliardi di dollari in favore di Tel Aviv. Più la guerra infuria, più la contraddizione tra le parole e i fatti diventa manifesta: le dichiarazioni dei politici, americani ed europei, mentre esprimono “sostegno inequivocabile a Israele”, dicendosi allo stesso tempo “preoccupati per i civili a Gaza” tentano di conciliare posizioni inconciliabili. Il risultato, osserva Nesrine Malik sul Guardian, è sconcertante: “Gaza è diventata espressione della crisi di legittimità di una classe politica anglo-americana che presiede sistemi ormai fragili, che danno sempre meno alle loro popolazioni, e il cui principale argomento è che l’alternativa sarebbe peggiore”.  

Il commento

di Ugo Tramballi, Senior advisor ISPI

“L’unica forza capace d’imporre a Israele un corso diverso, sono gli Stati Uniti, decisi a criticarne i comportamenti ma riluttanti a trarne le conseguenze. Si dice che l’indecisione dipenda dalla campagna presidenziale già incominciata. Su Gaza c’è un grande interesse in America. Tuttavia dalla fine della Guerra fredda non è la politica estera che elegge un presidente. Oggi sono l’economia, la pressione migratoria, l’aborto, le relazioni razziali, la diffusione delle armi da fuoco. Storicamente i repubblicani erano anti-russi e filo-israeliani. Oggi in Campidoglio continuano ad opporsi a ogni aiuto militare a ucraini e israeliani. Non per una questione geopolitica, ma per un muro ai confini del Texas”. Continua a leggere.

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A cura della redazione di  ISPI Online Publications (Responsabile Daily Focus: Alessia De Luca,  ISPI Advisor for Online Publications) 

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