26 Mar 2024

Stati Uniti e Israele: qualcosa è cambiato?

Gli Usa si astengono e all’Onu passa la risoluzione di cessate il fuoco: Netanyahu è infuriato ma in definitiva quello di Washington è un messaggio per lui.

Quattordici voti a favore e un’astensione, determinante, quella degli Stati Uniti: è passata così la risoluzione per un cessate il fuoco tra Israele e Hamas presentata al Consiglio di Sicurezza dalla delegazione del Mozambico. Un’approvazione per certi versi storica, che dopo più di cinque mesi e oltre 32mila morti, mette fine allo stallo e ai veti incrociati tra Washington, Mosca e Pechino. Le indiscrezioni circolavano da giorni e, dopo settimane di botta e risposta e sgarbi diplomatici da parte del premier Benjamin Netanyahu nei confronti dell’alleato americano, le parole della vicepresidente Kamala Harris, “non escludo niente”, avevano attivato i campanelli d’allarme: il colpo di scena è arrivato ieri pomeriggio, quando Washington ha deciso di astenersi, e dunque di non porre il veto alla risoluzione che prevede un “cessate il fuoco immediato per il Ramadan”, che conduca ad una tregua “durevole e sostenibile” e il rilascio “immediato e incondizionato di tutti gli ostaggi”, ma che non vincola a questo punto la sospensione delle ostilità. La decisione di astenersi, hanno spiegato i diplomatici Usa, dipende dal fatto che il testo differisce dalla posizione di Washington perché non contiene una condanna esplicita dell’attacco del 7 ottobre, ma non rappresenta di per sé un cambiamento della politica e della posizione americana sul conflitto. Di fatto però, costituisce l’azione più dura intrapresa finora contro l’alleato storico, ed espone – per la prima volta e in maniera evidente – il totale isolamento di Israele sullo scenario internazionale.

Rafah: punto di rottura?

L’astensione americana non è un voto a favore, ma rappresenta una scelta politica eloquente nel contesto attuale: per mesi le cronache avevano riportato malumori, frustrazione e una frattura crescente tra la Casa Bianca e il premier israeliano Netanyahu sul modo in cui quest’ultimo stava conducendo la guerra a Gaza, tra massacri di civili, embargo alimentare e di materie prime essenziali e il bombardamento di ospedali e infrastrutture. Ma la ragione che ha spinto Washinton a un cambio di passo, oltre alle crescenti pressioni internazionali, è principalmente una: l’ostinata volontà del leader israeliano di portare avanti un’offensiva militare a Rafah ovvero, come scrive Ugo Tramballi “un attacco del più potente e avanzato esercito della regione – e fra i primi al mondo – a una tendopoli di un milione e 300mila sfollati denutriti”. Un’operazione che, nel quadro della crisi umanitaria in corso e in assenza di un piano di evacuazione per i civili o di un progetto per il ‘day after’ si connoterebbe – hanno ammonito le agenzie Onuniente meno che come una pulizia etnica. La reazione del premier israeliano all’astensione Usa non si è fatta attendere. Netanyahu ha parlato di “errore” che avvantaggia Hamas e bloccato la partenza di una delegazione israeliana per Washington. Dal canto loro, dopo aver mandato un segnale inequivocabile, gli Stati Uniti sperano di riportare l’establishment israeliano a più miti consigli, esercitando la propria influenza su altri esponenti del gabinetto di guerra. A Washington è in visita il ministro della Difesa Yoav Gallant: nelle prossime ore incontrerà il consigliere per la sicurezza Jake Sullivan, il segretario di Stato Antony Blinken e il segretario alla Difesa Lloyd Austin.

La risoluzione è vincolante?

“La risoluzione deve essere attuata. Un fallimento sarebbe imperdonabile” ha detto il Segretario Generale dell’Onu Antonio Guterres. Le sue parole seguono momenti di confusione, ieri al Palazzo di vetro quando, poco dopo il voto al Consiglio di Sicurezza, l’ambasciatrice americana Linda Thomas-Greenfield ha dichiarato che la risoluzione appena approvata non era vincolante spiegando, successivamente, che “non rientrava nel capitolo sette della Carta delle Nazioni unite”. Una posizione che ha gettato scompiglio tra diplomatici e giornalisti presenti e ribadita in conferenza stampa anche dal rappresentante della Corea del Sud. Sono dovuti intervenire l’ambasciatore del Mozambico, insieme al collega della Sierra Leone, Michael Kanu, e all’ambasciatrice di Malta, Vanessa Frazier, per smentire il diplomatico e ricordare che “tutte le risoluzioni del Consiglio di Sicurezza – secondo la carta Onu – sono vincolanti, sempre”. L’interpretazione dei funzionari statunitensi è stata contestata anche dagli altri membri del Consiglio e da diversi esperti di diritto internazionale, secondo cui queste motivazioni, pur indebolendo l’efficacia della risoluzione, non la rendono tuttavia meno vincolante. La confusione intorno all’efficacia della misura, tuttavia, lascia trasparire una verità scomoda: anche se la risoluzione è vincolante e Israele sarebbe costretto a rispettarla, questa è solo la teoria. La pratica è tutt’altra cosa: in passato Israele ha violato diverse risoluzioni delle Nazioni Unite senza subirne conseguenze e Netanyahu ha già detto – attraverso il ministro degli Esteri Israel Katz – che la guerra non finisce qui.

Un messaggio a Netanyahu?

Le conseguenze della richiesta, seppur disattesa, di un cessate il fuoco potrebbero andare ben oltre il palazzo di Vetro. Già oggi, “lo strappo” tra Netanyahu e Biden costituisce l’apertura di gran parte della stampa israeliana e molti commentatori osservano che se il premier israeliano si rifiutasse di rispettare la risoluzione, gli Stati Uniti potrebbero decidere di sospendere i rifornimenti militari allo Stato Ebraico, una decisione che esponenti democratici di spicco invocano da settimane. Sul quotidiano in lingua ebraica Ma’ariv, Ben Caspit ha descritto l’approccio del primo ministro israeliano come “delirante, folle e terrificante”, aggiungendo: “Quest’uomo ci sta mettendo tutti a rischio: il nostro futuro, quello dei nostri figli e quello dell’alleanza strategica che è la chiave di volta della sicurezza nazionale israeliana”. Altrettanto duro è l’editoriale del quotidiano di sinistra Haaretz, che descrive Netanyahu come “l’agente della distruzione di Israele” diventato “un peso per il paese”. E se anche al di fuori dei media, le richieste di dimissioni del premier e di elezioni anticipate sono tornate a farsi sentire, la cosa non sembra dispiacere l’alleato statunitense. Non è la prima volta che Benjamin Netanyahu fa infuriare la Casa Bianca. Lo ha fatto regolarmente da quando è diventato primo ministro israeliano nel 1996. Finora però la sua sfida non era mai stata così prolungata, come nessuna crisi nella lunga alleanza tra i due paesi era stata così grave come quella che si è sviluppata negli ultimi sei mesi di guerra a Gaza.

Il commento

Di Ugo Tramballi, Senior Advisor ISPI

“La risoluzione del Consiglio di Sicurezza approvata con la decisiva astensione americana, chiede una tregua umanitaria immediata che permetta lo scambio fra ostaggi israeliani e prigionieri palestinesi. L’obiettivo è trasformarla in un cessate il fuoco permanente per raggiungere una soluzione politica del conflitto. È difficile che accada in tempi brevi. Di una tregua israeliani e Hamas, attraverso la mediazione di Usa, Qatar ed Egitto, trattano da mesi. Se ci sarà, non avverrà per imposizione del Consiglio di Sicurezza (la storia della diplomazia è piena di risoluzioni Onu disattese, soprattutto in Medio Oriente) ma perché i protagonisti diretti finalmente lo vorranno”.

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A cura della redazione di  ISPI Online Publications (Responsabile Daily Focus: Alessia De Luca,  ISPI Advisor for Online Publications) 

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