20 Lug 2023

Afghanistan: non è un paese per donne

Dispersa a Kabul la manifestazione di donne che protestavano contro la chiusura di parrucchieri e saloni di bellezza: è l’ultima mossa dei talebani per escluderle dalla vita pubblica.

L’ultima puntata dello scontro tra talebani e donne afghane si consuma tra spazzole, belletti e smalti per le unghie. Ieri a Kabul le forze dell’ordine hanno disperso con gli idranti e diversi colpi in aria una manifestazione di una cinquantina di donne che protestavano contro la decisione del governo di chiudere parrucchieri e saloni di bellezza, ennesimo giro di vite che mira ad escludere la popolazione femminile dalla vita pubblica del paese. In quasi due anni dal loro ritorno al potere, dopo la catastrofica smobilitazione della missione internazionale a guida Usa, gli ex studenti coranici hanno escluso le studentesse dalle scuole superiori e dalle università, impedito loro di frequentare aree pubbliche, luna park e palestre e ordinato di coprirsi integralmente in pubblico. Un ritorno al passato che ha rapidamente fugato ogni speranza sul fatto che ‘l’emirato 2.0’ costituito nel 2021 non avrebbe assunto le caratteristiche di quello che aveva governato il paese nei suoi anni più bui. Oggi, l’ultima ordinanza impone alle donne di chiudere anche parrucchieri e centri di bellezza – a volte l’unica fonte di reddito per le famiglie – mettendo fuori legge una delle poche opportunità rimaste per socializzare lontano da casa. “Lavoro, cibo, libertà”, recitava un cartello brandito da una delle manifestanti che hanno coraggiosamente sfilato in Butcher Street, nel centro della capitale, prima di essere disperse.

Guerra all’eyeliner?

“Lo scopo della nostra manifestazione era che loro [i talebani] riconsiderassero e revocassero la decisione di chiudere i saloni di bellezza perché si tratta delle nostre vite” racconta una manifestante ad Al Jazeera. “Ma oggi nessuno è venuto a parlarci, ad ascoltarci. Non ci hanno prestato attenzione e dopo un po’ ci hanno disperso con colpi in aria e cannoni ad acqua”. Secondo la camera di commercio afghana se la decisione non sarà ritirata, circa 60mila donne, molte delle quali unica fonte di reddito per le loro famiglie, rimarranno senza lavoro. Il Ministero per la promozione della virtù e la prevenzione del vizio ha giustificato la decisione con il fatto che le somme “eccessive” spese nei saloni avrebbero causato difficoltà alle famiglie povere e che alcuni trattamenti non sarebbero in linea con i precetti islamici: troppo trucco impedirebbe alle donne di effettuare le abluzioni adeguate alla preghiera, mentre l’extension delle ciglia e la colorazione dei capelli sarebbero in conflitto con l’obbligo di “modestia”. I saloni di bellezza erano rimasti chiusi nel paese tra il 1996 e il 2001 quando i talebani erano al potere. Poi si erano moltiplicati a Kabul e in altre città nei 20 anni in cui le forze guidate dagli Stati Uniti hanno di fatto occupato il paese. Dal ritorno dei talebani, nel 2021 erano rimasti aperti, ma le vetrine erano state coperte e le immagini delle donne fuori dai negozi erano state dipinte con spruzzi di vernice per nascondere i loro volti.

Un’apartheid delle donne?

Il rispetto dei diritti delle donne era tra le condizioni poste dalla comunità internazionale nei negoziati coi Talebani per la ripresa degli aiuti umanitari. Eppure un rapporto del Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite a firma di Richard Bennett,  relatore speciale per l’Afghanistan, riferisce che la situazione delle donne e delle ragazze nel paese “è tra le peggiori al mondo”. Secondo il relatore, “la discriminazione grave, sistematica e istituzionalizzata contro le donne e le ragazze è al centro dell’ideologia e del governo dei talebani”, in linea con comportamenti tacciabili di veri e propri “crimini contro l’umanità” e “apartheid di genere”. Il leader talebano Haibatullah Akhundzada, che appare raramente in pubblico e governa per decreto dalla roccaforte talebana di Kandahar, ha detto il mese scorso che le donne afgane sono state salvate dalle “oppressioni tradizionali” grazie all’adozione del governo islamico e al ripristino del loro status di “esseri umani liberi e dignitosi”. Diversi governi della regione, dalla Turchia all’Arabia Saudita tuttavia, hanno bollato le restrizioni imposte alle donne come “non conformi alla religione e ai principi dell’Islam”.

L’altra metà del cielo?

Intanto, a quasi due anni dal ritiro degli Stati Uniti, per le donne e gli attivisti nel paese si sono verificati i più cupi tra gli scenari ipotizzabili. I talebani sono ancora saldamente al comando e nonostante le previsioni iniziali di una guerra civile, nessuna resistenza sostanziale si è manifestata finora a sfidare il loro potere. E se è vero che il paese è in preda ad una gravissima crisi umanitaria, la sua economia – fortemente dipendente dagli aiuti esterni – si è contratta ma non è ancora implosa. Allo stesso modo, mentre l’inflazione alimentare è in calo, in assenza di soluzioni a lungo termine in vista, il paese è preda di un lento ma inesorabile naufragio. Anche la comunità internazionale che si è cautamente impegnata, ma senza veramente impegnarsi in un confronto con il nuovo governo, temporeggia indecisa in una sorta di limbo. Intanto le restrizioni dei talebani stanno rendendo la vita dei cittadini sempre più difficile e scoraggiano ogni speranza per il futuro. Oggi l’Afghanistan è l’unico paese al mondo che impedisce l’accesso di ragazze e donne all’istruzione. “Si rischia di perdere un’intera generazione, poiché le donne istruite sono essenziali per lo sviluppo”, spiega l’Unesco. “L’Afghanistan – o qualsiasi altro paese – non può progredire se metà della sua popolazione non può avere un’istruzione e partecipare alla vita pubblica”.

Il commento

Di Giuliano Battiston, giornalista e direttore Lettera 22

“Quanto successo ieri a Kabul dimostra due cose: la prima è la determinazione delle donne afghane a rivendicare i propri diritti, anche assumendosi rischi enormi. Una determinazione che ieri è stata visibile, grazie alla manifestazione pubblica, e che è costante, anche se generalmente più sottotraccia e sotterranea. La seconda è il crescente autoritarismo violento delle autorità di fatto, le quali non tollerano alcuna forma di dissenso e reprimono ogni tipo di affermazione di libertà nei luoghi pubblici, specialmente se proviene dalle donne, verso le quali adottano una vera e propria apartheid di genere. Il conflitto sociale tra l’Emirato e la popolazione è destinato a durare”.

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A cura della redazione di  ISPI Online Publications (Responsabile Daily Focus: Alessia De Luca,  ISPI Advisor for Online Publications) 

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