25 Mar 2024

La strage di Mosca e il futuro del jihadismo

L'attentato in Russia dimostra che il terrorismo di matrice jihadista non è scomparso, ma al contrario aspetta il momento giusto per rilanciare la propria iniziativa.

L’attacco alla Crocus City Hall di Krasnogorsk, nei pressi di Mosca, costituisce, con un bilancio di almeno 137 morti e più di 180 feriti, uno dei più gravi attacchi jihadisti degli ultimi anni.  

La strage di venerdì 22 marzo è stata prontamente rivendicata dal cosiddetto Stato Islamico (IS), con un breve testo in arabo della sua “agenzia stampa” Amaq, seguito da un altro comunicato più dettagliato, la pubblicazione di una fotografia dei quattro presunti attentatori e, infine, la diffusione di un video in soggettiva della sparatoria. 

In questi materiali di rivendicazione ufficiale, l’attacco contro la Russia viene di fatto inscritto nella consueta missione generale di lotta contro i cristiani “infedeli”, senza richiami puntuali a vicende recenti. D’altra parte, vi sono pochi dubbi sul fatto che la Russia sia uno dei nemici storici dello Stato Islamico e in generale della causa jihadista. Senza risalire sino a i tempi dell’Unione Sovietica e alla sua invasione dell’Afghanistan nel 1979 (che ha prodotto come reazione la nascita del jihadismo globale e la fondazione di Al-Qaida nel paese asiatico), si può ricordare che la Russia si è più volta scontrata, direttamente o indirettamente, contro formazioni jihadiste negli ultimi decenni; tra i principali campi di battaglia, vi sono la Cecenia, con le due brutali guerre del 1994-1996 e del 1999-2009, la Siria dopo l’intervento militare di Mosca a favore del Presidente autoritario Bashar al-Assad avviato nel 2015, e oggi diversi paesi dell’Africa.  

Inoltre, in passato, la Russia è già stata colpita da attacchi jihadisti, anche di alto profilo. La strage di cittadini russi più recente è rappresentata dall’attentato del 31 ottobre 2015 contro un aereo civile russo in partenza dall’Egitto, che precipitò sulla penisola del Sinai, provocando la morte di tutte le 224 persone che erano a bordo. L’attacco fu rivendicato dalla Provincia del Sinai del cosiddetto Stato Islamico. All’interno del territorio della Federazione Russa, è necessario ritornare indietro di vent’anni, sino all’assalto alla scuola di Beslan del 1° settembre 2004, che si concluse due giorni più tardi con un bilancio di ben 334 morti. In quell’occasione, gli attentatori erano islamisti fautori della causa del separatismo ceceno. 

Al momento, si possono avanzare diverse ipotesi per spiegare perché un attacco jihadista di così vasta portata sia stato eseguito in Russia proprio in questa fase. È possibile che lo Stato Islamico abbia cercato di approfittare della ribalta, anche mediatica, che le vicende russe hanno garantito negli ultimi mesi, specialmente dopo l’invasione dell’Ucraina nel 2022. L’organizzazione potrebbe anche aver beneficiato di un minor livello di attenzione e impegno delle forze armate e di sicurezza russe nel campo della lotta al terrorismo, a causa delle energie e delle risorse destinate allo sforzo bellico in Ucraina nonché alla repressione dell’opposizione interna. Un altro aspetto generale che merita considerazione è il fatto che nell’ultimo decennio la proiezione internazionale di Mosca in regioni a maggioranza musulmana sia notevolmente cresciuta, peraltro in corrispondenza di un minor coinvolgimento complessivo degli Stati Uniti e dei suoi alleati; questa dinamica fa sì che oggi numerose formazioni jihadiste trovino proprio nella Russia un primo nemico sul campo. 

Di fronte a questi rischi, il 22 marzo la Russia è sembrata impreparata. Ciò è tanto più vero se si pensa che nelle settimane precedenti vi erano stati segnalazioni del rischio di attacchi terroristici proprio a Mosca. In particolare, il 7 marzo l’Ambasciata degli Stati Uniti in Russia aveva addirittura diramato un comunicato che indicava il pericolo di “piani imminenti” di attacchi contro assembramenti di persone nella capitale, compresi proprio “concerti”. Nello stesso giorno le autorità russe avevano dichiarato di aver sventato un attacco dello Stato Islamico a Mosca, ufficialmente contro una sinagoga, “neutralizzando” i responsabili. Appena tre giorni prima dell’attacco alla Crocus City Hall, il Presidente Putin aveva etichettato gli avvertimenti provenienti dagli Stati Uniti come “dichiarazioni provocatorie” dell’Occidente, finalizzate a intimidire e destabilizzare la società russa.  

Dopo l’attacco alla Crocus City Hall, che ha messo in evidenza un eclatante fallimento degli apparati di sicurezza, Putin è rimasto in silenzio per molte ore prima di commentare la strage. Analogamente a quanto era già avvenuto in passato (per esempio, subito dopo il massacro di Beslan nel 2004), il Presidente russo apparentemente ha deciso di utilizzare la questione del terrorismo per rilanciare temi di politica estera, sostenendo, senza fornire alcuna prova, la tesi implausibile secondo cui gli attentatori fossero in qualche modo connessi all’Ucraina.  

A ben vedere, nelle condizioni instabili e tese dell’attuale contesto internazionale, nemmeno la lotta contro quello che sarebbe un “nemico comune”, lo Stato Islamico e le altre organizzazioni del jihadismo globale, sembra sfuggire pienamente alle ostilità e rivalità tra potenze. Al contrario, per lo Stato Islamico non vi è gran differenza tra Occidente e Russia; infatti, alla luce della sua visione rigidamente manicheistica della realtà, tutti coloro i quali non aderiscono alla sua ideologia estremistica sono automaticamente nemici irriducibili.    

L’attacco in Russia rappresenta, al contrario, un notevole successo per lo Stato Islamico. A differenza della sua prassi, l’organizzazione jihadista non ha specificato quale delle sue diverse branche regionali abbia effettivamente portato a termine l’attacco. L’attenzione si è comprensibilmente concentrata sul cosiddetto Stato Islamico – Provincia del Khorasan (anche detto IS-K). Fondata nel 2015, questo ramo dell’IS, che non nascosto la sua ostilità nei confronti della Russia, ha realizzato attacchi prevalentemente in Afghanistan e nel vicino Pakistan. In Afghanistan, i Taliban, storicamente legati ad Al-Qaida e rivali dello Stato Islamico, hanno fatto fatica a contenere questa organizzazione. Da parte loro, le forze degli Stati Uniti e dei loro alleati, com’è noto, non sono più schierate nel paese asiatico dopo la precipitosa ritirata dell’agosto 2021 e non considerano i Taliban un partner con il quale si possa attivamente cooperare.  

Nondimeno, lo Stato Islamico – Provincia del Khorasan ha mostrato l’intenzione e la capacità di colpire anche al di fuori dell’area afghano-pakistana. È stata con ogni probabilità questa branca afghana a eseguire il grave attacco suicida del 3 gennaio 2024 a Kerman, in Iran, durante un evento di commemorazione presso la tomba del Generale Qasem Soleimani, assassinato esattamente quattro anni prima dagli Stati Uniti in Iraq. L’attacco terroristico di Kerman, con oltre 90 morti, è stato il più grave nella storia del paese, dalla fondazione della Repubblica Islamica dell’Iran nel 1979. 

Per inciso, vale la pena di notare che, analogamente alla Russia, anche l’Iran inizialmente offrì una lettura strumentale dell’attacco jihadista in funzione della propria politica estera, incolpando Israele e gli Stati Uniti per la strage di Kerman, tanto più alla luce della guerra in corso nella Striscia di Gaza, prima di riconoscere la matrice jihadista dell’attacco. Rimanere da vedere se anche Putin, dopo le prime reazioni strumentali all’attacco vicino a Mosca, lascerà cadere le narrazioni complottiste sviluppate in funzione anti-Ucraina.     

In aggiunta, la Provincia del Khorasan dell’IS fu probabilmente responsabile anche dell’attacco alla Chiesa di Santa Maria nei pressi di Istanbul, in Turchia, il 28 gennaio 2024, rivendicato dallo Stato Islamico. In quell’occasione, due uomini mascherati entrarono all’interno del luogo di culto cattolico, gestito da frati francescani provenienti dall’Italia, durante la messa domenicale e aprirono il fuoco sui fedeli, uccidendo una persona e ferendone un’altra.  

Nel complesso, oggi l’IS-K si presenta come una delle articolazioni jihadiste più pericolose anche a livello globale, sebbene le sue attività terroristiche siano piuttosto discontinue. Peraltro, il fatto che le siano attribuiti importanti attacchi per conto dello Stato Islamico in diversi paesi, anche in assenza di riferimenti puntuali nelle rivendicazioni ufficiali, finisce, oltre ad aumentare la sua notorietà nel pubblico generale, presumibilmente può avere l’effetto di incrementare il suo prestigio e la sua influenza nelle cerchie jihadiste favorevoli allo Stato Islamico. È inoltre opportuno sottolineare, a differenza della maggior parte delle altre branche dell’IS, la Provincia del Khorasan vanta una dinamica attività di propaganda online che opera in autonomia in più lingue (dall’arabo, pashtu e dari, sino al tagico e all’inglese). 

In generale, dalla minaccia jihadista, che in questo principio di anno ha già colpito così duramente l’Iran e la Russia, non è naturalmente esente nemmeno l’Occidente. Dopo il 2015 in Occidente il pericolo si è manifestato con atti di violenza, spesso rudimentali e con bassi livelli di letalità, pianificati e portati a termine da singoli attentatori o, al più, da piccoli gruppi indipendenti, che si riconoscono nella causa estremistica, anche per effetto dell’influenza del web, e decidono di passare all’azione in autonomia, senza appartenere organicamente alle grandi organizzazioni del jihadismo globale. In questa dinamica prevalentemente “liquida”, anche lo Stato Islamico e persino la sua Provincia del Khorasan possono comunque giocare un ruolo, per quanto finora indiretto e marginale. Per esempio, solo pochi giorni fa, il 19 marzo, la polizia tedesca ha arrestato due cittadini afghani, sospettati di preparare un attacco vicino al Parlamento svedese. Secondo gli inquirenti, almeno uno dei due uomini sarebbe stato incaricato proprio dall’IS-K di colpire la Svezia per vendetta contro la famigerata pratica del rogo di copie del Corano promossa da un attivista anti-islamico in Scandinavia (un comportamento disapprovato dal governo di Stoccolma, ma non illegale in quel paese). 

La strage perpetrata nei pressi di Mosca può incoraggiare militanti e simpatizzanti jihadisti e può anche alimentare dinamiche di emulazione. In Occidente, l’attacco del 22 marzo ha condotto rapidamente a un innalzamento del livello di sicurezza. In particolare, in Francia, il paese occidentale più interessato dalla minaccia jihadista, nella serata di domenica 24 marzo, il governo ha annunciato l’innalzamento del livello del rischio terrorismo, al grado più alto (“emergenza attacco”). In Italia, nella mattinata del 25 marzo, al Viminale si è tenuta una riunione del Comitato nazionale ordine e sicurezza pubblica, che ha disposto anche un’intensificazione delle attività di vigilanza e di controllo da parte delle Forze di polizia, anche in vista delle festività pasquali. 

Senza voler essere allarmistici, è utile tenere a mente che in questo 2024, a dieci dalla proclamazione del sedicente “califfato” e a cinque dal suo crollo in Siria e in Iraq, anche in Europa non mancheranno certamente le occasioni ad alto rischio, come gli assembramenti per le Olimpiadi di Parigi e per gli Europei di calcio in Germania, nonché i summit internazionali al massimo livello, come gli appuntamenti del G7 presieduti e ospitati dall’Italia. Appare quindi importante quindi che l’attenzione nei confronti della minaccia jihadista globale rimanga elevata, tanto più nel contesto già teso prodotto dalla guerra in corso nella Striscia di Gaza. 

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